Il pragmatismo italiano nel suo tempo e nel nostro
Pubblicato in: Filosofia Italiana, anno XVI, fascicolo 2, pp. 119-132.
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Data: 25 febbraio 2021
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1_Il pragmatismo italiano in dialogo
Il pragmatismo italiano ha intessuto molteplici rapporti tanto con la cultura nostrana quanto con alcune correnti transatlantiche, intercettandone gli sviluppi e favorendone la diffusione in ambienti filosofici storicamente resistenti al cambiamento. Stretto tra il positivismo (europeo e italiano) e l’idealismo (altrettanto caratterizzato), il pragmatismo ha condotto la propria battaglia intellettuale incentrata sul primato dell’esperienza, intesa in termini energetici e proattivi, ibridando e trasformando strategie e lessici sedimentati nella tradizione filosofica occidentale che questo si impegnava a sovvertire o quanto meno a ripensare radicalmente. Per comprendere a pieno il respiro e le poste dell’operazione portata avanti dal pragmatismo italiano si deve infatti tenere ben presente la torsione semantica impressa ad alcuni dei termini centrali della tradizione filosofica, tra cui quelli di razionalità, teoresi e appunto esperienza. Il pragmatismo, inteso come metodologia e come sensibilità complessiva prima ancora che come concezione sostantiva particolare (ammesso che questa distinzione abbia senso), ha infatti a che fare con l’intensificazione e lo stravolgimento del rapporto tra teoria e pratica, esperienza e riflessione, scienza e filosofia, e dunque tra il tipo di resoconto che offriamo di noi stessi e del mondo e il modo in cui mettiamo più o meno a frutto queste conoscenze nella vita concreta.
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Inteso come un invito incessante a interrogare e verificare i nostri concetti, significati e valori alla luce delle conseguenze del loro impiego e degli effetti della loro sperimentazione su noi stessi, il pragmatismo si è ritagliato un ruolo peculiare nel panorama filosofico contemporaneo: ossia quello di un atteggiamento trasformativo, un afflato al cambiamento, uno strumento per la gestione della crisi e un’attenzione per i rapporti di forza in netta contrapposizione tanto con l’intuizionismo quanto con il tradizionalismo che ha caratterizzato quei tentativi di fissare gli orizzonti di senso e le possibilità di azione entro quadri immutabili o tendenze storiche altrettanto indisponibili agli attori in gioco. Proprio a causa di questo suo piglio migliorista e orientamento al nuovo e al lavorio incessante delle singolarità coinvolte, il pragmatismo si è guadagnato uno stuolo di nemici e di oppositori, che appunto l’hanno variamente tacciato di frenesia e immaturità, di scarso amore per i dettagli e di una endemica mancanza di visione d’insieme. Sono proprio le risposte a queste accuse ad indicarci gli aspetti più interessanti del pragmatismo italiano, che ha difeso con astuzia e talvolta con una lungimiranza ignota ai suoi stessi protagonisti l’ambizioso progetto culturale e filosofico di rinnovamento dell’esperienza umana individuale e collettiva nei suoi ambiti più vari. Una dote che va ben oltre i primi due lustri del Novecento in cui il nucleo originario del movimento ha assestato i suoi colpi più ad effetto, e in cui si è spesso voluto relegarne la parabola anche a causa di appropriazioni politiche di dubbia legittimità. Quella che è passata per una progressiva disgregazione di un programma abbastanza compatto ha invece rappresentato la sua naturale fioritura e proliferazione sotto sigle molteplici.
Il pragmatismo italiano, che ha offerto una sua visione distintiva della tradizione nordamericana da cui mutua nome, sensibilità e approccio filosofico, ha rappresentato forse un unicum, nel panorama intellettuale occidentale, per la sua capacità di riunire sotto un cappello unitario (al netto di alcune distinzioni interne, seppur significative) tanto le istanze innovatrici e critiche proprie della rivoluzione filosofica approntata oltreoceano da James e Peirce, quanto una sensibilità nichilista e spiritualista propria della cultura europea tedesca (Schopenhauer e Nietzsche) e francese (Renouvier e Bergson). Quella operata da Papini, Prezzolini, Vailati e Calderoni (ma anche da personaggi nominalmente esterni al pragmatismo quali Vignoli, Limentani, Amendola e Mondolfo), non è tuttavia una mera sintesi tra istanze in apparenza diversissime, ma la cifra caratteristica di un momento della filosofia italiana in cui la ricettività per quello che accadeva oltre i confini nazionali si incontrava con l’impegno in una scrupolosa revisione della sua storia recente. L’idealismo di Croce e Gentile, che in quegli stessi
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anni fondavano la rivista «La Critica» (1903-1944/1951) rispondendo virtualmente alla nascita dell’organo ufficiale del pragmatismo italiano «Leonardo» (1903-1907), si propose come una ripresa dell’idealismo di Spaventa, caduto sotto i colpi d’artiglieria positivista (tanto in psicologia quanto in filosofia), a cui il neoidealismo oppose uno storicismo illuminato e intransigente. Laddove il pragmatismo italiano fece fronte comune contro il positivismo (o, meglio, un certo positivismo), e dunque contro il culto dell’evidenza esterna (scientifica o sociale che sia) come via maestra alla conoscenza e all’azione, differentemente dall’idealismo la strada intrapresa fu quella della rivalutazione della vita individuale e collettiva come momento di generazione di valori esperienziali che spezzassero le catene deterministiche della causalità (scientifica quanto storica). Il terreno di scontro tra idealismo e pragmatismo divenne dunque quello della natura stessa della realtà e del nostro coinvolgimento in essa, e la contesa acquistò presto i toni di una resa dei conti tra una filosofia stanca di continue promesse rivoluzionarie (rasenti al messianesimo) e una egualmente spazientita dall’ingombro di una teoresi mai attualizzata (se non proprio mai attualizzabile). Una resa dei conti tanto più interessante e sfaccettata in quanto i duellanti erano accomunati da un eguale interesse a riscattare la filosofia dal ruolo ancillare a cui la scienza sembrava averla ridotta sotto il positivismo, avendo egualmente a cuore un rilancio tanto delle aspirazioni quando degli effetti della riflessione critica sulla vita concreta delle persone.
2_Alcune coordinate per una periodizzazione
L’ottimo volume curato da Riccardo Roni e Achille Zarlenga 1 ci guida con mano sicura tra le pieghe di queste vicende filosofiche che hanno aperto a tutti gli effetti il secolo appena passato, caratterizzandone in larga parte (e ben oltre il periodo preso in considerazione dal volume) le vicende. Nella loro preziosa introduzione, i curatori presentano il quadro d’insieme entro cui si muovono i pragmatisti italiani, mostrando tanto i complessi rapporti intercorsi con i paladini dell’idealismo Croce e Gentile quanto le conseguenze di quegli scontri per i destini del gruppo fiorentino (poi allargato) 2.
2 Gli studi classici sono ovviamente E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari 1966; A. Santucci, Il pragmatismo in Italia, il Mulino, Bologna 1963, con cui si confronteranno generazioni di studiosi. Si veda anche il più recente volume di P. Casini, Alle origini del Novecento. «Leonardo», 1903-1907, il Mulino,
Bologna 2002.
I curatori parlano sensatamente di ‘tre epoche’ (non necessariamente diacroniche) del pragmatismo italiano, ossia quella più immediatamente legata allo scambio con i neoidealisti (Papini e Prezzolini, i cosiddetti ‘pragmatisti magici’), quella in cui è divenuto preponderante il dialogo con il positivismo (Vailati e Calderoni, i ‘pragmatisti logici’) e infine quella in cui questi autori unirono le loro forze per l’elaborazione di uno sperimentalismo filosofico dell’esperienza vissuta sulla scorta di James e Schiller.122
Laddove i pragmatisti magici si distinsero per la loro rottura con il positivismo in polemica con i neoidealisti, rei di aver coltivato quell’humus rappresentazionalista (seppur inteso in chiave razionalista) che avrebbe permesso al positivismo di prendersi la scena sulla scorta dei mirabolanti progressi scientifici del tempo, la compagine logica tentò invece di tessere le fila di un empirismo non rappresentazionalista capace di rileggere alcuni di quegli stessi progressi in chiave pragmatista. Sia il primo che il secondo gruppo professava uno sperimentalismo radicale, pur dividendosi sul grado di tolleranza e inclusione delle esperienze da considerare come genuinamente significative o quantomeno prioritarie. Il successo della loro sintesi e delle loro rispettive integrazioni segnerà i tentativi di individuare nella nozione di ‘prassi creativa’ il minimo comune multiplo del movimento, capace di trovare spazio alla mistica quanto alla logica, al ragionevole quanto all’irrazionale. Infine, nell’introduzione si dà conto delle importanti rivalutazioni storiografiche dell’intera tradizione rese possibili dalla pubblicazione di materiali che hanno mostrato le complesse stratificazioni e sofisticazioni delle posizioni dei pragmatisti italiani. Particolare significative appaiono a questo riguardo le lettere inedite di Vailati a Prezzolini raccolte e commentate nell’appendice al volume, che ci restituiscono alcuni momenti di questi fitti scambi intellettuali. Questo il quadro composito del pragmatismo italiano classico, che ha segnato profondamente la prima metà del secolo scorso, aprendo la via a ciò che gli ha fatto seguito 3.
3 È in preparazione una sezione monografica sul pragmatismo italiano di metà secolo
(Giulio Preti, Aldo Visalberghi, Ferruccio Rossi Landi, Nynfa Bosco, Antonio Santucci, Giovanni Tarello) per la rivista «European Journal of
Pragmatism and American Philosophy», in cui viene affrontato il contributo di questa generazione meno nota, seppur importantissima, allo sviluppo del pragmatismo italiano e alla sua ibridazione con altre tradizioni (filosofia analitica, fenomenologia, storia della filosofia) e discipline (pedagogia, semiotica, diritto).
Quello che più colpisce, almeno chi scrive, è l’attualità di alcuni registri dello scambio filosofico tra pragmatismo italiano e queste tradizioni filosofiche, che troviamo riproposti, naturalmente in veste aggiornata, nel dibattito filosofico contemporaneo, a cent’anni dalle loro sintesi originarie. Ho in mente da una parte la questione metafilosofica della natura stessa della riflessione e la sua relazione con la pratica, e dall’altra il contrasto tra approcci ironici (giocosi e incompleti) e sobri (maturi e compiuti). Questi due tavoli di confronto, a cui dedicherò le prossime sezioni e attraverso cui presenterò seppur per sommi capi i vari contributi che completano il volume, mi sembrano restituire meglio di altri la fine fattura dell’apparato filosofico pragmatista e la sua capacità di dialogare proficuamente con approcci anche molto diversi, arrivandone ad abbracciare alcuni aspetti e ad influenzarne altrettanti. Non è un caso che la storia del pragmatismo (italiano e non) si è poi configurata dialetticamente come un’alternanza tra quelle che a tutti gli effetti potremmo chiamare delle tentazioni idealiste e positiviste, e dunque che le molte anime che oggi incarnano il movimento possano essere distinte proprio rispetto a queste venature e influenze. Rileggere il pragmatismo italiano classico in questa
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chiave significa dunque gettare luce sulle sue vicende e generazioni successive, in cui le nozioni di teoria e pratica, di serietà e provocazione giocano un ruolo centrale.
3_Una questione (di) pratica
Il tema della relazione tra teoria e pratica, tra riflessione e azione, rappresenta il cuore pulsante del pragmatismo in tutte le sue versioni, ma caratterizza in modo esemplare il motore filosofico del pragmatismo italiano. Come recita il frontespizio del primo numero del «Leonardo» (4 gennaio 1903), i pragmatisti italiani si identificano come «un gruppo di giovani, desiderosi di liberazione, vogliosi d’universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale», studiosi interessati a «intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte» 4 attraverso una filosofia che si integri con la vita per riaccendere e rivalutare entrambe. Il pragmatismo consisterebbe dunque in una trasfigurazione della vita, e al contempo in un modo di vivere, un’arte dell’esistenza e un programma di lavoro per dissodare teorie e concezioni del mondo, sottraendole all’atavica tendenza a disseccarle in camere spesso asfittiche per metterle finalmente a frutto nell’esperienza concreta. Contro il razionalismo dei principi e delle grandi orchestrazioni sovra-individuali (e dunque, in ultima analisi, sovra-psicologiche), il pragmatismo è inteso dal gruppo italiano come una filosofia dell’esperienza in fieri, una chiamata all’azione che si contrapponga alla fissità dei concetti, in cui tutto deve essere messo in pratica e verificato, mostrandone in questo modo tanto i guadagni quanto gli arretramenti nella e per la vita concreta. Le idee come i sogni, la realtà come la fantasia, vanno realizzati pena il loro deperimento ed eventuale tossicità. L’enfasi posta da Papini e Prezzolini, Vailati e Calderoni, è sulla volontà individuale, sul carattere audace dell’impegno e della scelta, sulla necessità di rendere vive le nostre menti e le nostre soggettività. Come scrive Papini facendosi portavoce dell’intero movimento, attraverso l’azione dobbiamo appropriarci della realtà e superare le nostre stesse limitazioni. Il tema della vita come fonte, orizzonte e obiettivo del pensiero si tinge nelle pagine dei pragmatisti italiani di toni esistenzialisti e mistici, andando a incrociare temi cari a Nietzsche e poi allo spiritualismo italiano ed europeo 5.
5 Per una presentazione classica del pragmatismo in termini volontaristi e personalisti, si veda R. Berthelot, Un romantisme utilitaire. Étude sur le mouvement pragmatiste, Alcan, Paris 1911, e J. Wahl, Vers le concrete. Études d’Histoire de la philosophie contemporaine, Vrin, Paris 1932.
La teoria, secondo questo approccio, è povera e addirittura pericolosa senza pratica nella misura in cui non dà voce alla soggettività sulla cui pelle ricadono le conseguenze della scelta di un’opzione filosofica rispetto ad un’altra. Monismo o pluralismo, dunque? Libertà o determinismo? Sì, ma a che condizioni, con quali esiti e per conto di chi? La teoria si fa strumento di vita e al contempo si rivela nel suo carattere di pratica ipotetica.
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Non vi sarebbe elaborazione teorica in mancanza di conseguenze tangibili, e le condotte frutto di riflessione costituiscono tutto ciò che c’è di rilevante in essa. Per usare una metafora idealista, per il pragmatismo la pratica (invece che il pensiero) tocca il mondo senza scarti né eccessi. Alcuni dei contributi del volume affrontano il tema della centralità della pratica nel pragmatismo italiano da punti di vista differenti, mostrando come questa sia a tutti gli effetti la categoria che meglio caratterizza la sensibilità filosofica dei suoi vari protagonisti.
Nel suo Philosophy and Economics. Mario Calderoni and Vilfredo Pareto, attraverso il confronto critico tra queste due figure rappresentative del dibattito economico e morale di inizio secolo, Guido Baggio mostra come per il pragmatismo la nozione di condotta umana sia primaria e non derivata, illuminando alcune nozioni centrali della nostra vita e cultura sociale piuttosto che essendo illuminata da esse. Cosa conta come un interesse, etico o economico, e in maniera analoga un’intenzione o una scelta, è comprensibile per Calderoni quando ci poniamo dal punto di vista del suo contributo alla condotta umana e a come questa si dispiega nella pratica. Contro quei tentativi di fissare a monte del loro uso e del loro posto nella condotta riflessiva e ordinaria degli agenti le nozioni di preferenza, utilità o dovere Calderoni invita tanto i filosofi morali quanto gli economisti a guardare il modo in cui le psicologie dei soggetti interessati si configurano e si regolano in situazioni di rischio e perplessità, andando a disegnare una condotta che esprima, esplicitandolo, il proprio posizionamento assiologico nel mondo. Si tratta dunque, come scrive Baggio parafrasando Calderoni (e Dewey), di rimpiazzare le nozioni soggettivistiche di intenzioni e intuizioni con quelle pubbliche di scelta e conseguenza (p. 31). In quest’ottica, si possono apprezzare tanto le affinità quanto le differenze tra Calderoni e Pareto, impegnati nell’elaborazione di una scienza del comportamento umano che parta effettivamente da esso piuttosto che arrivarci per sublimazioni progressive come proposto ad esempio da Croce proprio in polemica con questi autori. Le affinità di questa elaborazione con il dibattito contemporaneo sulla natura e i limiti della teorizzazione (o modellizzazione) tanto in etica quanto in economia sono evidenti 6.
6 Per una ripresa contemporanea di questi temi da una prospettiva pragmatista, si veda ad esempio H. Putnam, Fatto/Valore: fine di una dicotomia, Fazi, Roma 2004.
L’etica e l’economia ammettono dunque teorie nella misura in cui queste sono espressione di prassi e di abitudini, e dunque in ultima analisi di modi di vita. Ma la stessa epistemologia può e anzi dovrebbe seguire questa strada. Nel suo contributo su Il pluralismo delle verità secondo Papini, Giovanni Tuzet offre una ricostruzione composita del modo in cui Papini intese legare oggettività e pluralismo aletico, contrapponendolo al gretto relativismo di cui il pragmatismo è stato spesso tacciato. Il terreno di
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scontro è quello della natura della corrispondenza che sussisterebbe tra enunciati e stati di fatto, se univoca o invece plurale, e la modalità caratteristica in cui Papini se ne occupa è quella di traslare la scelta al livello di un’opposizione di atteggiamenti verso la vita: di accettazione o di creazione, di morte o di potenza (p. 124). Mentre infatti il monismo sulla verità avrebbe come conseguenza una chiusura del nostro accesso al mondo ad una singola descrizione possibile, il pluralismo significa possibilità di movimento: mentre il primo ci costringerebbe alla fissità entro i limiti di un sistema rigido, il secondo dà spazio alla sperimentazione con varie possibilità. Il punto saliente è che solo pensando la verità come qualcosa in fieri piuttosto che come un punto di arresto riusciremo a gettare reti capaci di adattarsi a una realtà che non sembra trovar pace. È questo il senso in cui, secondo Papini, la verità pluralistica si guadagna un grado di oggettività, ossia permettendoci di incontrare e cooperare con un mondo in cui ci è possibile orientarci. Tuzet ci ricorda come questa è la nozione di verità con cui lavora più di una generazione di pragmatisti (da Peirce a Ramsey, da Quine a Putnam), intendendo la corrispondenza plurale tra asserti e fatti nei termini di un buon funzionamento pratico del soggetto epistemico 7.
7 Questa concezione è stata spesso contrapposta ad un’altra riscontrabile nella linea che da James e Dewey arriva a Rorty. Si veda ad esempio H.O. Mounce, The Two Pragmatisms: From Peirce to Rorty, Routledge, London & New York 1997.
Ancora una volta, dunque, la teoria (della verità in questo caso) si configura in primo luogo come una via della e alla pratica.Se le teorie si nutrono di vita e sono da questa continuamente monitorate, uno dei campi in cui questa ‘practicalizzazione’ del pensiero è maggiormente visibile è senza dubbio quello della filosofia della religione. I sentimenti religiosi e l’intero comparto della mistica e della filosofia della trascendenza diventano la chiave per una antropologia dell’umano che vuole farsi dio spingendosi oltre le limitazioni naturali che pure lo caratterizzano. Nel suo contributo al volume, Il pragmatismo esistenziale-religioso di Papini e Prezzolini, Achille Zarlenga presenta a questo riguardo il modo in cui questi autori intendono la filosofia come uno dei modi in cui i soggetti possono trascendersi e creare un sé libero nel pensiero e nell’azione. Lungi dal perdere aderenza con il terreno empirico delle pratiche quotidiane, la trasformazione dell’io chiama in causa una modificazione della realtà a partire dal potere del linguaggio di sprigionare l’energia psicologica che caratterizza le singole soggettività pensanti. L’autore lega indissolubilmente gli esiti dell’operazione dei due pragmatisti magici alla tenuta del progetto anti-dualistico jamesiano di riportare il sacro e il divino nel quotidiano, facendone una dimensione della nostra esperienza piuttosto che un’entità o un ideale che ci governa dall’alto. Non si tratterebbe dunque di rendere l’individuo sovra-umano, quanto piuttosto di estendere il novero di possibilità degli individui attraverso il ricorso al divino
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che è in noi e che ci richiede sacrifici, attese e in ultima analisi l’esercizio di una credenza plastica e generativa. La coltivazione di queste pratiche filosofico-esistenziali ha come obiettivo quello di una intensificazione dell’esistenza, di una presa di coscienza del fatto che le nostre facoltà, come le nostre membra, devono essere esercitate per poter mantenere tono ed elasticità, per sorreggerci e per permetterci di interagire proficuamente con la realtà nella sua scala di significati, possibilità e misteri. Il pragmatismo si configura dunque in tutto e per tutto come un’arte della vita, in cui l’opera è il sé e la sfida quella di renderlo presente al mondo 8.
8 Per una ripresa contemporanea di questi temi, si veda R. Shusterman, Practicing Philosophy: Pragmatism and the Philosophical Life, Routledge, London & New York 1997.
A complicare l’immagine invalsa del pragmatismo italiano come diviso nei due gruppi dei ‘magici’ e dei ‘logici’, Giovanni Maddalena ha da tempo suggerito linee di continuità e di unità che siano capaci di far tesoro delle varie personalità in gioco e metterle a servizio di una battaglia culturale e filosofica comune 9.
9 A tal proposito, si veda G. Maddalena e G. Tuzet (a cura di), I pragmatisti italiani tra alleati e nemici, AlboVersorio, Milano 2007.
Nel suo Vailati, Papini, and the Synthetic Drive of Italian Pragmatism, l’autore ripercorre alcune tappe fondamentali di questa vicenda, che integra con la questione altrettanto controversa e sviante delle presunte simpatie fasciste del gruppo fiorentino. Le figure di Papini e Vailati, apparentemente ai lati opposti dello spettro pragmatista, sono descritte come impegnate nella comune decostruzione del progetto kantiano, tanto nella sua declinazione teoretica tanto in quella pratica, a cui questi contrappongono una filosofia della prassi imperniata sul concetto di sperimentazione psicologica e fattuale. Per usare una bella espressione di Vailati, l’attività filosofica è creatrice di «parole d’ordine» e di «disordine» (p. 102, n. 28) attraverso cui arrangiare o sparigliare la realtà, educando la nostra volontà a liberarsi dal peso delle consuetudini e delle regolarità che sembrano formare catene (logiche ed etiche) che ci costringono nei movimenti e nelle possibilità. A fronte di un progetto comune, la differenza tra i due autori consisterebbe piuttosto nelle modalità della sua realizzazione: laddove Papini non accettava le mediazioni della conoscenza scientifica intesa come impresa collettiva, Vailati le considerava in ultima analisi come delle tracce utili da seguire per poi proseguire individualmente il proprio percorso di ricerca e di trasformazione. Come suggerisce Maddalena, è dunque nell’alveo di una comune polemica contro quei tentativi di imbrigliare l’esperienza e la conoscenza umana entro binari rigidi che non chiamino in causa atti di creazione e di sintesi attraverso cui ampliare il nostro punto di vista sul mondo.4_Immaturità e incompletezza
Passo ora al secondo aspetto del registro pragmatista che ho indicato come sua cifra caratteristica, ossia il suo registro ironico. Come ben mostrano i
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curatori, pur presentandosi come una filosofia della prassi intransigente verso definizioni e categorizzazioni, almeno in questa fase il pragmatismo italiano incarna un’antropologia filosofica ben precisa: gli esseri umani sono votati all’azione e all’invenzione, e solo le tare inflitte loro dalle istituzioni (laiche e religiose) e talvolta autoinflitte per mancanza di coraggio e intraprendenza li rendono passivi rispetto a una realtà descritta come satura indipendentemente dall’intervento individuale e collettivo. Seppur pragmatica, e dunque anti-rappresentazionalista, si tratterebbe tuttavia a tutti gli effetti di un’antropologia. Un’antropologia filosofica che descrive i funzionamenti propri (o quantomeno opportuni) degli esseri umani, le capacità e le risorse per il loro perfezionamento. In questo senso i pragmatisti sarebbero interessati a rimpiazzare un’antropologia statica con una dinamica, un’immagine degli esseri umani come specchi passivi con una di fuochi ardenti. Il pragmatismo si presenterebbe dunque come un nuovo capitolo della svolta romantica nelle arti e nelle scienze 10.
10 Un resoconto classico di questo passaggio è presentato magistralmente da M.H. Abraham, The Mirror and the Lamp: Romantic Theory and the Critical Tradition, Oxford Univerisity Press, Oxford 1953.
Ma questa è solo una lettura possibile, a cui se ne può contrapporre un’altra, secondo cui, piuttosto che a un’antropologia pragmatica, i pragmatisti italiani (ancora una volta ispirandosi e trasmutando l’operato dei loro più famosi colleghi d’oltreoceano) erano interessati a una pragmatizzazione dell’antropologia. Invece che a un’energizzazione della natura umana, secondo questa seconda lettura i nostri autori erano interessati a rendere qualsivoglia riferimento alla natura umana funzione di un interesse pratico, storicamente caratterizzato e dunque interamente rivedibile. Ad una metafisica pragmatista basata su uno sguardo più attento alle cose umane, questi preferirono dunque una narrazione pragmatista che ruotava attorno all’opportunità pratica di dar conto dell’umano in un certo modo. Sempre di anti-rappresentazionalismo si tratta, ma di fattura e con conseguenze diverse
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11 Un movimento (e lettura) simile è apprezzabile nel pragmatismo americano, a cui i pensatori italiani si ispirano, e in modo particolare alla versione di pragmatizzazione del registro antropologico attuato da James. Su questa seconda accezione pragmatista, mi permetto di rinviare a S. Marchetti, Kant, James, and the Practice of Ethics, in K. Skowronski e S. Pihlström (ed. by), Pragmatist Kant: Pragmatism, Kant, and Kantianism in the Twenetieth-first Century, «Nordic Studies in Pragmatism», IV (2019), pp. 213-234.
Se si conferisce credito, peso e priorità a questa seconda linea interpretativa, e dunque si prende sul serio la suggestione pragmatista secondo cui la nostra stessa descrizione della costituzione umana come pratica e contingente vada trattata come un’ipotesi altrettanto pratica e contingente, emergono delle linee caratteristiche di questa tradizione di pensiero che hanno a che fare con il carattere aperto, ironico, sperimentale, incompleto e a volte polemico degli interventi dei suoi protagonisti. Se infatti si lascia cadere l’ultima vestigia metafisica di una natura umana di cui dar conto per far posto alle sole considerazioni pratiche e contingenti rispetto alla desiderabilità e opportunità di impegnarsi in una tal descrizione, il pragmatismo diviene un esperimento aperto di autocomprensione critica. Ed è esattamente questo atteggiamento, insieme rischioso
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e beffardo, capriccioso e faceto, che sarà preso di mira da Croce e Gentile sulle pagine de «La Critica», contrapponendovi una più sobria ricerca delle condizioni di costituzione del reale. All’edificazione pragmatista, i neoidealisti contrappongono la comprensione storica. La risposta pragmatista non si farà attendere, laddove i suoi portavoce più intransigenti rivendicheranno la concretezza e l’incisività dei loro giochi in opposizione alla vacuità e alla vetustà delle presunte indagini seriose del reale. In un dialogo dai toni fortemente psicanalitici, i due attori in gioco si sono contesi il titolo e la qualifica dell’atteggiamento più proficuo da assumere nei confronti di noi stessi e della realtà, schivando e rilanciando accuse di narcisismo, immaturità e indisponibilità a lasciarsi toccare dall’esperienza.
Ora, tra le nozioni, da una parte, di ironia, incompletezza, provocazione e immaturità, e, dall’altra, di serietà, compiutezza, rigore e maturità, c’è un’aria di famiglia al contempo evidente e difficilmente caratterizzabile (soprattutto nel poco spazio a disposizione) 12. È tuttavia possibile indicare alcuni fili che le tengono insieme per farne emergere lo spirito del contrasto con i loro opposti. Mi aiuterò ancora una volta con i contributi dal volume in esame.
Il testo di Alfonso Maurizio Iacono su Tito Vignoli e il «troppo finito» è magistrale a questo riguardo nel mostrare (adombrandolo appena, naturalmente) la convergenza della sensibilità impressionista per l’incompletezza e la critica pragmatista al mito della compiutezza. Giocando sulla differenza tra un pezzo fatto e un pezzo finito, tra qualcosa di compiuto e qualcosa di completo, Vignoli sottolinea il carattere attivo tanto dello spettatore dell’opera d’arte quanto dello scienziato nei confronti della sua teoria sul mondo. L’atteggiamento di cui si fa burla è quello di chi pretende di riuscire a fissare l’oggetto delle proprie ricerche una volta per tutte, rappresentando fedelmente la realtà (la natura, le presunte essenze), spogliandosi quanto più possibile del proprio bagaglio di desideri, aspettative e frustrazioni. Attraverso un prezioso lavoro a ritroso nelle fonti, Iacono mostra alcuni padri nobili di questa sensibilità impressionistico-pragmatista, quali Baudelaire e Cézanne, hanno fatto della distinzione tra rifinito e compiuto il centro del loro lavoro di artisti e di intellettuali. L’incompletezza ha un piglio ironico nella misura in cui si prende gioco del tentativo di esaurire e saturare la realtà riproducendola fedelmente. Ciò che invece sarebbe in ballo nelle opere creative umane, e nell’umanità in quanto tale, è invece il tentativo di far vedere o meglio intravedere qualcosa che non è già tutta lì, lezione che il pragmatismo avrebbe fatta sua intendendo le proprie sperimentazioni letterarie e filosofiche che si proponevano non tanto di restituirci fedelmente la realtà quanto di invitarci a ingaggiarla e contribuirvi. Non dunque
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un’opera di divinazione dell’esistente, quanto piuttosto una sfida a immaginare possibilità ancora non scorte 13.
13 Questi i temi che sopravvivono in una rappresentanza pragmatista contemporanea. Si veda ad esempio J. MargoLis, The Arts and the Definition of the Human: Toward a Philosophical Anthropology, Stanford University Press, Stanford, 2008. Un riferimento classico è ovviamente J. Dewey, Art as Experience, University of Southern Illinois Press, Carbondale 1987 [1934].
A questo principio di creazione ironica si dedicheranno i pragmatisti italiani, e in modo particolarmente originale Prezzolini. Riccardo Roni, nel suo Prezzolini e l’eredità di Fichte, porta alla luce ancora altre fonti di questo atteggiamento ironico e trasformativo, questa volta andando a scavare negli studi di Prezzolini sulla cultura classica tedesca. L’autore lega la ricerca prezzoliniana sulla profondità dell’io e il suo desiderio di grandezza con la necessità dell’ironia e dell’incompletezza. In quello che a tutti gli effetti può essere letto come un manifesto dell’etica ironica, Prezzolini scrive come «[l]a scoperta dell’io profondo genera l’ironia, il gioco con se stessi, e il bisogno di opere grandi ma incomplete, non finite a causa della loro stessa grandezza. Questa superiorità scherzosa dell’io è il principio fondamentale di una poesia romantica, che deve fondare su tutto ciò che è leggendario, mal definito, misterioso, nascosto, lontano» (p. 109). Un (nuovo) romanticismo, sì, ma giocoso perché consapevole della propria contingenza e parzialità, della propria finitezza e impossibilità a portare a termine nemmeno l’opera d’arte apparentemente più prossima, ossia noi stessi. Si tratta dunque di una forma di idealismo pragmatico, in cui il compito della filosofia non è quello di esaltare ‘l’egoità’ pensante quanto invece quello di suggerire l’inesauribile bacino di alterità rappresentato dal mondo, dagli altri 14.
14 Per un’istallazione contemporanea di questo approccio, si può guardare all’intera biografia intellettuale di Richard Rorty, e in particolare al suo classico La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1989. Su pragmatismo e romanticismo, e in particolare su questo modo di metterli insieme, si veda invece il più recente Philosophy as Poetry, University of Virginia Press, Charlottesville & London 2016.
Ancora una volta, si procede non per dimostrazioni, ma per esortazioni: nessuna prova su cui restare, solo indizi da seguire. In questa luce, ad un’epistemologia moltiplicatrice di possibilità di vita corrisponde un collettivismo politico che si nutre delle azioni soggettivanti. Una filosofia dell’eccesso conscio della sua incompletezza e incapace di prendersi troppo sul serio, dunque per questo democratico e conciliante nonostante le apparenze elitarie e bellicose.Un ultimo passaggio in questa direzione è tracciato e percorso da Giulio A. Lucchetta, che nel suo Gente che lavora presenta il contributo di Vailati sul primo libro della Metafisica di Aristotele, di cui curerà l’edizione per i tipi di Carabba (1909), in conversazione con le più famose interpretazioni e usi del testo offerti da Preti e Mondolfo. In aperta polemica con il giudizio neoidealista sulla presunta immaturità e inaffidabilità dei pragmatisti italiani, l’autore ci presenta un Vailati intento a democratizzare e contestualizzare (attualizzandola) la teoresi come attività umana cardinale. Sarebbero dunque i pragmatisti a promuovere una cultura del lavoro e delle approssimazioni progressive a una realtà in divenire scevra di coordinate fisse e stucchevoli. Il pretesto, se così può essere chiamato, è la concezione aristotelica della divisione tra teoria e prassi, e la conseguente polarizzazione delle attività e delle tipologie umane secondo
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un ideale aristocratico forse sensato e persino pertinente nell’Atene del quarto secolo ma per nulla appropriato né accettabile nella scena contemporanea in cui Vailati rilanciava il testo antico. Con Vailati il gioco si fa estremamente serio, dunque, andando a toccare il tema del lavoro come dimensione centrale della pratica e della condizione umana. Mettendo al centro la prassi come strumento di affinamento della teoresi, di cui la prima mostra il punto, l’Aristotele di Vailati (e in maniera simile di Preti e di Mondolfo) è intento ad erodere quella «patologia sociale» (p. 76) e psichica che pretende una divisione tra chi progetta e decide (edifici, operazioni mediche e interi piani di vita) e chi meramente li esegue: tra chi sa e chi sa (meramente) fare, e dunque tra chi governa comandando e chi obbedisce eseguendo 15.
15 La filosofia di John Dewey, che in quegli stessi anni era nel pieno della sua attività, può essere letta come uno svolgimento del tema della democratizzazione della pratica e attraverso la pratica, che il filosofo americano applica sistematicamente ai vari campi del sapere, dalla logica alla pedagogia, dall’etica all’estetica. Sul punto, si veda J. Dewey, Logic: The Theory of Inquiry, University of Southern Illinois Press, Carbondale 1986 [1938].
La complessa dialettica messa in piedi dall’autore ha molti aspetti ed altrettanti esiti: mostrare come il pragmatismo italiano abbia legato virtuosamente una filosofia anti-autoritaria con una chiamata alla sperimentazione pratica, un programma di riforma intellettuale e sociale con una dialettica disimpegnata, un credo democratico con un atteggiamento e una cultura dell’incertezza.5_Uno sguardo al futuro
Il pragmatismo italiano ha rappresentato un momento di intensa ed originale produzione intellettuale che ha lasciato un segno profondo nella cultura italiana e non solo. Il testimone di questo esperimento è stato raccolto da un numero di figure che non necessariamente ne hanno mutuato il nome ma che tuttavia hanno tenuto vivo il messaggio integrandolo con stimoli e sollecitazioni che hanno mostrato una volta di più come il pragmatismo sia davvero una teoria-corridoio che mette in comunicazione istanze (e dunque prospettive e interessi) tra loro molto diverse, come la descrisse Papini in alcune pagine famose e più volte riprese, piuttosto che una concezione monolitica e ingessata. In questo breve testo ho provato a indicare due strade lungo cui tale dote è stata articolata e messa a frutto. I contributi che compongono il volume in esame ci offrono una messe di spunti per ricostruire la fisionomia del pragmatismo italiano classico e per rilanciarne le promesse. Il pragmatismo italiano ha ancora molto da insegnarci, su se stesso e su di noi.
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